domenica, marzo 27, 2005

[Racconto] Il sogno

Questo è il mio primo racconto postato su it-alt.arti.scrivere.fantascienza, il newsgroup di cui sono il promotore. Non ho idea di quanti riusciranno a leggere il racconto da qui, ma in tal caso vi prego di commentarlo qui o direttamente sul newsgroup. Buona lettura :)


[scarica il racconto in .pdf]
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Nel sogno era un uomo ricco e felice, con una moglie e due bambine splendide.
Vivevano in una lussuosa villa di campagna, una di quelle che aveva sempre desiderato; lussuosa, sì, ma non tanto da provocare l’invidia del vicinato: bella quanto bastava per essere la migliore ai suoi occhi, tutto qui, col suo bel praticello e il cortile coi conigli ed un cane a far la guardia se si decideva di passare un fine settimana fuori, ecco. Nel sogno era seduto in salotto accanto alla sua bella, si discuteva del più e del meno in allegria. Fuori nel cortile Anna, la più piccina, e Teresa, ormai quattordicenne, giocavano a pallone insieme, e le grida di divertimento giungevano al soggiorno e gli facevano pensare a quanto era stato fortunato nella vita, a come era riuscito a realizzare passo per passo tutti i suoi progetti, la famiglia, la casa, il lavoro, tutto. Sonia lo fissava ora in silenzio dai suoi occhi vispi di un colore indefinito tra il verde e il grigio che tanto avevano fatto sognare il marito, e sembrava poter scrutare nel suo animo e capire i suoi pensieri, rallegrandosi di quanto fosse stata fortunata essa stessa. Lui se ne capacitò a sua volta, e scostandosi dal suo posto le strinse la mano in un gesto d’affetto, accennando un sorriso che fu ricambiato.
Ma in quell’istante un grido, un urlo che non era certo un segno di divertimento, irruppe nella stanza. Ne fu quasi sconvolto, sapeva che qualcosa era andato storto. Incontrò ancora lo sguardo di Sonia, ma stavolta i suoi occhi sembravano spenti. Tutta la stanza era come avvolta dalla nebbia. Quando Anna entrò in salotto, aveva un ghigno stampato sul volto, e teneva un coniglio per le lunghe orecchie. Il suo sguardo si volse allora all’animale: grondava sangue sul pavimento da un vistoso squarcio sul petto.


Si svegliò terrorizzato.

Aperti gli occhi, si sentì paralizzato al ricordo della scena e il suo volto si contorse in una smorfia di disgusto. L’edificio dove si trovava era alto e grigio, grigio, di cemento armato forse. Poteva sentire grida tutt’intorno a lui, ma non ci pensò, semplicemente strisciò per mezzo metro sulle braccia (dopo il sogno aveva la schiena a pezzi) a raggiungere un barattolino di vetro alto e stretto. Ci ficcò la mano tremante ed ingollò le tre compresse che riuscì ad afferrare. L’effetto fu quasi immediato: pochi secondi più tardi, era già ricaduto in un sonno pesante e profondo.

Anna stava piangendo e Teresa, pochi metri dietro di lei, la osservava con uno sguardo triste e comprensivo. L’animaletto aveva una ferita che nessuno riusciva a spiegarsi: il cane, forse. Ma era stato sempre cosi docile..! La ferita non era grave ad ogni modo. Non che gliene fregasse un granché, ma se voleva mantenere la figura di padre affettuoso avrebbe dovuto medicare la ferita. Quella stupida bestia. Lei ed il cane. Prese l’animale e lo portò in bagno. Disinfettare un coniglio…ma chi cazzo glielo faceva fare! Anna osservò i gesti del padre e comprese il suo pensiero. Prese a piangere più forte…e Sonia ora lo fissava indispettita in uno sguardo di rimprovero. Il sogno divenne così strano…fino a pochi attimi prima gli era sembrato di vedere chiaramente. Ma ora la vista gli si stava lentamente offuscando, i contorni della figlia erano doppi e confusi, e la sua voce suonava diversa dal solito: più bassa e grave, come a giurare vendetta.


Arrancò nuovamente al risveglio. Si era allontanato ancora dal suo barattolo, chissà come nel sonno agitato, forse rotolando su un fianco. Questa volta però la distanza era maggiore: dovette pensare che sarebbe stato più facile arrivarci da in piedi, perché cercò a tastoni qualcosa a cui appoggiarsi. Riconobbe un corpo forse addormentato, steso al suolo come lui fino a pochi attimi prima, a pochi centimetri un piccolo contenitore in vetro. Il contenitore era vuoto.
Da dietro le sue spalle, un ronzio metallico. Riuscì a nascondersi per un pelo. Pochi attimi dopo un macchinario che si muoveva appeso alle rotaie sul soffitto analizzò, col suo braccio meccanico, l’iride del corpo a cui fino a pochi attimi prima aveva avuto intenzione di aggrapparsi. Riconobbe nel corpo una donna di mezza età, vestita in abiti trasandati. I capelli lunghi e ricci le cadevano disordinatamente sul volto, dandole un’aria ancora più trascurata. Mentre con una sorta di pinza il robot le teneva aperte le palpebre, una luce le scorreva freneticamente su e giù per l’occhio a scannerizzarle la pupilla. E’ morta, pensò dal suo nascondiglio provvisorio. Finita l’operazione, il robot emise una serie di segnali radio, attese una risposta dall’unità di eleborazione centrale, ed infine sollevò il corpo grazie al braccio meccanico. La donna venne trasportata in un’altra area che l’uomo non riuscì a scorgere nella penombra.
Si sentiva davvero spossato, ora. Capiva che prima o poi anche il suo piccolo contenitore si sarebbe svuotato, e realizzare quale sarebbe stata la sua fine allora non era certo un’operazione che richiedesse un grande sforzo di immaginazione.
Ma i sintomi della dipendenza erano troppo forti. Riuscì a fatica a rialzarsi e a raggiungere il barattolo, anche se le gambe gli facevano un male cane e le braccia continuavano a tremargli freneticamente, quasi ripudiassero il suo corpo. Arpionò il recipiente con entrambe le mani e rovesciandolo se lo portò sopra la testa. La maggior parte del contenuto cadde a terra, ma le cinque pillole che centrarono il bersaglio bastarono a ricalarlo nel buio più nero.


Sonia e Teresa erano infuriate con lui, ma Anna lo era ancora di più. Strillava e piangeva imprecandogli contro, e dovette rifugiarsi dalla mamma per trovare un po’ di conforto. Il cane ora latrava autoritario nel cortile, come presagendo una lite furiosa. Spezzò con la sua mole la sottile corda che lo teneva legato al cancello, e si introdusse in casa insistendo ad abbaiare. Ora perfino il cane era contro di lui. Vedeva il coniglio sanguinare nelle sue mani, e per tutta risposta si mise ad abbaiare ancora più forte.
Stizzito, sbraitò al cane. «Brutto bastardo, guarda che hai fatto! questa soltanto è opera tua..» Lanciò con tutte le sue forze il corpicino della bestiola sul muso del cane da guardia, che ormai era a pochi passi. Il cane riuscì a scansarlo, ma il gesto liberò la furia di Sonia. Gli saltò addosso furiosa urlandogli in faccia, e di lì a poco la lite sarebbe sfociata nella violenza, se…


Si alzò boccheggiando. Non poteva continuare. Assolutamente, non poteva continuare. Raccolse le forze e decise che doveva uscire da quell’inferno. Il contenitore giaceva per terra rovesciato e c’erano ancora diverse pastiglie al suolo accanto ad esso. Ma lui aveva preso una decisione: doveva uscire da quell’inferno. E se voleva uscire da quell’inferno, per prima cosa doveva smetterla anche solo di pensare a impasticcarsi di nuovo. Sentiva che poteva farcela, se agiva in fretta. Contro ogni aspettativa si sentiva ora più rinfrancato, e decise di tentare il tutto per tutto. Un passo alla volta dapprima, e poi correndo, arrivò al luogo in cui gli era sembrato di aver visto sparire il braccio meccanico. Cominciava a sentire delle fitte allo stomaco e un tremolio alle braccia, ma le gambe reggevano ancora, e le braccia non gli servivano. Non ora. La corsa gli sembrava interminabile, ma già intravedeva…sì, sì, una luce!
Corse con quanto fiato aveva in gola. Ma le gambe incominciavano a indolenzirsi seriamente. Dovette rallentare e riprendere un po’ di fiato. Ma c’era una porta, ed era aperta, a poche decine di metri dal suo naso. Poteva avanzare solo zoppicando ora, ma l’importante era avanzare. Piuttosto, doveva guardarsi dal farlo ben in silenzio…era spaventato a morte dall’idea di fare la fine della ragazza trasandata di poco prima.
Di nuovo, un ronzio metallico…
Si buttò a terra, ed era l’unica cosa che poteva fare nelle sue condizioni. Immaginò che si trattasse di un altro corpo deceduto, ma non lo seppe mai.
Il braccio meccanico non si curò (o sembrò non farlo) di lui, e proseguì per la sua strada verso l’esterno. Bene.
Se l’istinto di buttarsi a terra gli aveva forse salvato la vita, aveva però sicuramente peggiorato le sue condizioni fisiche. Aveva battuto le ginocchia con un colpo secco, e poiché stavolta non riusciva a rialzarsi completamente, ora procedeva gattoni.
La luce…era fuori.
Se avesse aperto gli occhi, se avesse resistito ancora un attimo, avrebbe visto il mondo come gli si presentava fino a poche settimane prima. Un mondo frenetico, meccanizzato, ottimizzato per ottenere il meglio nel minor tempo possibile, un mondo dove pochi uomini trovavano spazio, e gli altri si dovevano rassegnare. Gli altri, come lui e la donna coi capelli ricci.
Ma non riuscì ad aprire gli occhi. Il dolore era troppo forte, e non era soltanto dolore fisico. Appena uscito, si era ricordato come per incanto di come la sua vita ed il suo mondo erano crudeli con lui. Si accasciò al suolo.
Cinque minuti più tardi, di fronte alla porta dell’Ospedale Psichiatrico Nazionale, ala 51b, ci fu un lieve ronzio metallico. Pochi attimi dopo un braccio meccanico, proveniente da fuori, aprì con una sorta di pinza le palpebre di un uomo dall’aria smunta, il corpo flaccido, il viso contorto in un’espressione di indicibile sofferenza. Ma il braccio meccanico non si accorse nulla di tutto ciò. Semplicemente, azionò lo scanner della pupilla, inviò dei segnali radio all’unità di elaborazione centrale, attese la risposta e infine si caricò addosso il peso del corpo esanime, portandoselo via per sempre.

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