domenica, marzo 27, 2005

[Racconto] Bambole



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'Ti capisco quando dici che
rivorresti le tue bambole...'
(Negrita, 'Bambole')



Vennero una notte d'inverno. Non avevano orecchie a punta, nè una pelle verde e ripugnante. E poi si presentarono alle nostre porte tutti nella stessa notte, protetti da una corazza di metallo. Avevano preso la forma di cane robot, era stata quella la loro grande trovata; lì per lì ci cascai anch'io. Danny aveva sempre voluto un animale, non ci fu verso di convincerlo quando lo vide sulla porta, quel mattino. Volle perfino dargli un nome, a quella bestia: io per lui non ce l'avevo un nome, per lui io ero mamma, 'ma, 'm, ma quel cane bastardo era Bob, Roger, Fido! Aveva anche voluto l'enciclopedia, per cercargli un nome che suonasse bene, qualcosa di importante, e alla fine decise per Argo. Ogni due o tre giorni gli cambiava nome, comunque, tanto per fare.

Iniziai a insospettirmi quando notai quei suoi strani occhi. Prima non ci avevo fatto caso, voglio dire, gli occhi di un qualsiasi cane robot sono un cerchiolino luminoso rosso, che dietro devono nascondere dei meccanismi complicati, sensori visivi o che so io. Passavo dalla stanza di Danny per rigovernare, e notai che stavano giocando, sembravano divertirsi. C'era qualcosa di terribilmente strano, però. Si stavano fissando dritto negli occhi. Il robottino scodinzolava, sembrava felice, ed anche Danny lo sembrava. Anzi, Danny era felice. Ma quei due occhi elettronici..! Erano terribilmente grossi, ed erano anche molto luminosi. Avevo visto altri animaletti del genere, giù al mercato dell'usato: scimmiette, gattini, anche due o tre piccoli pappagalli; ma nessuno, nessuno!, dico, aveva degli occhi così. Erano quasi minacciosi.

Danny, ad ogni modo, non sembrava preoccuparsene più di tanto. Più che preoccupato, era preso dal suo nuovo 'regalo', come lo chiamava lui. E non sentiva più ragioni, tornato a casa da scuola salutava sempre prima lui, e poi me; faceva pranzo, saliva in camera; e quell'ammasso di ferraglia sembrava felice di seguirlo. Stava su delle ore, scendeva solo per cena, e sempre in compagnia del suo nuovo, inseparabile amichetto. E ritornava in camera a guardarlo, a guardare quegli occhi malefici. Ogni giorno.

Dan era in camera sua quel pomeriggio, come al solito, a farsi rubare l'anima un altro po'. Non sto esagerando. Quel cane gli rubava l'anima, davvero. Io non esistevo più per lui, ero diventata un fantasma, prima ancora degli amici e dei compagni di scuola. Il cane gli rubava l'anima, lo guardava negli occhi e gliela portava via, la immagazzinava nella sua piccola testolina, dietro agli occhi e ai sensori e a tutto il resto. In fondo l'avevo saputo fin da quando l'avevo visto per la prima volta, no?: quei robot piccoli e senza cuore li avevano inviati Loro. Chi altri? Chi poteva avere in mente un piano così subdolo, un colpo così basso? Entrare nelle case e rubare il cuore ai nostri bambini; ma non di nascosto, no! Farlo sotto gli occhi di tutti avrebbe destato meno sospetti. E un giorno o l'altro, quando l'opera sarebbe stata completata, allora sarebbero scappati via, tutti insieme nell'oscurità, sarebbero tornati di corsa alle loro basi, alle loro fottute astronavi, per vendere i nostri cuori su di un pianeta lontano. Mercanti di anime...non era già successo su Orione, su Andromeda? Ed io dovevo lasciare che ciò accadesse? Dovevo forse permettere che mi portassero via mio figlio?

Finalmente riuscii ad ottenere che il cane dormisse fuori. Fuori dalla stanza di Dan, voglio dire. Nessuna marchingegno di quel tipo avrebbe resistito ai meno sessanta notturni di queste parti, quando il nostro sole tramonta e spirano i venti più freddi, e questo Danny lo sapeva, purtroppo, perciò chiedergli di far dormire il cane fuori casa sarebbe stato come dirgli apertamente di uccidere il suo compagno di giochi. Invece inventai un pretesto per un castigo. Quella macchinetta infernale avrebbe dormito in salotto per le due settimane seguenti.

Quella notte non chiusi occhio, almeno fino a quando non mi decisi a scendere dal letto e controllare che fosse tutto a posto. Presi una torcia piccola e regolabile, forniva soltanto un filo di luce, che era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Con una lentezza indescrivibile mi avvicinai in silenzio alla porta che dava sul salotto. Accesi la torcia, attenta a non provocare il minimo rumore, e puntai il fascio luminoso su quegli occhi di fuoco. Erano chiusi. Tirai un sospiro, tornai nel letto e dormii tutta la notte.

Questa cosa si ripetè per tutta la settimana. Ogni notte aspettavo che Dan si addormentasse (lui non sospettava niente), poi mi alzavo nel silenzio più assoluto - davvero, non producevo il minimo rumore - e mi accostavo alla porta a guardare quell'essere maledetto. Anche lui dormiva, era immobile -- così ogni notte tornavo rassicurata a letto, e la mattina mi svegliavo di buonumore. Questo fino all'ottava notte...

Mi alzai, come ero solita, solo quando fui sicura che Dan fosse a dormire da un pezzo. Infilai le pantofole, presi la mia piccola torcia. Ed avanzai in direzione del salotto. Non stupitevi se vi dico che l'operazione poteva durare un'ora o anche più. Il silenzio richiede lentezza. E con una lentezza paranormale, tale che se mi aveste visto, se voi stessi mi aveste visto, avreste detto che ero immobile, che non mi stavo muovendo affatto, mi avvicinai finalmente alla porta del salotto. Avevo imparato ad essere silenziosa anche nell'operazione più rischiosa, l'accensione della torcia: premetti il polpastrello sul pulsante, per rilasciarlo dolcemente, molto lentamente, in un paio di minuti. Finita l'operazione, che per una strana scaramanzia effettuavo solo a due passi dalla porta, puntai finalmente il minuscolo fascio di luce sugli occhi di quella belva. Un fascio di luce spesso quanto un filo di ragnatela arrivò al cane e me ne restituì le forme. Gli occhi erano chiusi, come sempre. Il corpo giaceva immobile, rannicchiato in una postura che pareva dolce, e non meccanica. Era la prima volta che notavo quel particolare. Volli allargare il fascio di luce, per osservarlo meglio. Non l'avessi mai fatto! Nel farlo urtai accidentalmente la maniglia della porta. E quegli occhi, quei grandi occhi rossi, luminosi e maledetti, si aprirono e guardarono intorno. Rabbrividii. Maledissi mentalmente quella mia mano di cui avevo perso il controllo, ma era troppo tardi per i rimpianti. Quella bestiolina girò la testa e si alzò sulle zampe, con quei due punti luminosi, terribili e ipnotizzanti, ancora intenti a scrutare le forme nell'oscirità. Non saprei dire quanto rimasi sulla soglia, nell'immobilità più totale, aspettando che quel coso si riaddormentasse. Scelsi dapprima di spegnere la torcia, premendo ancora sull'interruttore, per favorirgli il sonno. E quando, dopo aver ripreso completamente il controllo del mio corpo, della respirazione, del battito del mio cuore, quando fu passato del tempo, almeno due o tre ore, decisi di aprire un minuscolo fascio di luce, un filo, un finissimo capello luminoso in direzione della bestia. Era ancora aperto. Questa volta guardava proprio me, dritto negli occhi. Andai su tutte le furie. Spalancai la porta, cieca di rabbia, presi un vaso di ceramica a pochi passi. E glielo sfracellai addosso. Il metallo di quella creatura era più fragile di quel che pensavo, oppure fu l'ira atroce da cui ero posseduta a deviare i miei sensi e rinvigorire le mie forze. Si spense con un gemito di paura, torcendosi dagli spasmi di dolore. Ricordo che risi, e che risi di cuore, quando vidi quei terribili occhi alieni spegnersi.

Il rumore dal salotto svegliò Dan. Corse in salotto in pigiama, e vide. Vide i bulloni rotolare via sul pavimento, vide il suo nuovo amico in pezzi. Prese a piangere. Mi insultava, singhiozzava qualcosa del suo regalo di Natale distrutto. Lui non sapeva, non sospettava. Ma io l'ho salvato, credetemi!

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