domenica, marzo 27, 2005

ApuliaCon

Dal sito ufficiale del concorso:

In occasione della 8° edizione della manifestazione Star Trek ApuliaCon il Comitato Organizzatore in collaborazione con alcuni enti e sponsor, bandisce il terzo concorso di letteratura fantascientifica "ApuliaCon".
Con questo concorso vogliamo dare spazio a tutti quei piccoli e grandi scrittori che si dilettano, per gioco o per passione, nello scrivere e nell'immaginare mondi, personaggi e ambientazioni fantascientifiche.
Inoltre, intendiamo incentivare tutto questo settore affinché si possa sdoganare, in Italia, questa branca della letteratura che é stata sempre sottovalutata dai tanti, cosiddetti, benpensanti.
L'intento del C.O. ApuliaCon e dei prestigiosi partner che ci affiancano é di far crescere, di anno in anno, questo concorso sino a divenire, nel settore della fantascienza, il principale della penisola.


La scorsa edizione del concorso ha visto oltre 150 racconti partecipanti, con la vittoria di Roberto Paura, attualmente membro di giuria del concorso letterario
Racconti dall'oltrecosmo.
Il bando e il modulo di iscrizione al concorso possono essere scaricati da qui. Per ulteriori informazioni, clicca sul titolo di questo articolo.

Trofeo Rill

Rill indice un interessante concorso letterario per racconti di genere fantasy o fantascienza. E' prevista una quota di partecipazione di 10 €, ma ogni autore riceverà in cambio l'antologia dei migliori racconti delle passate edizioni del concorso.
Il racconto vincitore verrà pubblicato sulle riviste Prospektiva e Tangram; inoltre, il suo autore riceverà un premio di 250 euro, e un buono acquisto di 55 euro in prodotti della casa editrice convenzionata col concorso. Il racconto secondo classificato sarà invece ospitato sulla rivista Il Foglio Letterario e sulla fanzine Anonima Gidierre.
Il Comitato Promotore, infine, si impegna a curare la stampa di un volume con i migliori lavori o a cercare altre fanzine e riviste interessate a pubblicarli. Le redazioni delle riviste Carmilla, Liberalia e La Vallisa, in particolare, si riservano di scegliere fra i premiati uno o più racconti da ospitare sulle proprie pagine.
I racconti non dovranno superare le 12 cartelle dattiloscritte di lunghezza. Ogni cartella dovrà avere preferibilmente circa 30 righe di 60 battute ciascuna, per un totale massimo di 21600 caratteri, spaziature tra parole incluse. E' gradita l'indicazione, per ogni racconto, del numero di battute totali.
Ogni concorrente può partecipare con più opere, purché inedite, originali ed in lingua Italiana.

Per ulteriori informazioni potete contattare la redazione via e-mail a trofeo@rill.it oppure cliccare sul titolo di questo articolo per il bando completo.

Intercom

Intercom è un vero e proprio paradiso per gli appassionati di fantascienza: con oltre 60.000 visitatori al mese, il sito spazia dalla narrativa alla saggistica e ai fumetti di fantascienza passando per musica, cinema e recensioni, downloads di storie e biografie degli autori che hanno segnato la storia della fantascienza.

Fabbricanti di Universi

Fabbricanti di Universi è un sito che esplora i sette mondi fantastici più celebri della letteratura fantasy e fantascientifica, con i loro creatori: Asimov, Star Wars, la Terra di Mezzo tolkeniana, Dune, Harry Potter, Star Trek e Terry Brooks, oltre a parecchi altri 'universi secondari'.

Sf-Academy

SF-Academy è, come it-alt.arti.scrivere.fantascienza, un'area dove è possibile condividere i propri racconti con gli altri membri del gruppo. Nato l'11/2/2001, il gruppo conta 76 racconti e numerosi commenti ai racconti. A differenza del newsgroup, per partecipare a SF-Academy è necessario iscriversi mandando un'e-mail vuota all'indirizzo sf-academy-subscribe@yahoogroups.com. Racconti e commenti verranno inviati direttamente all'indirizzo da cui ci si è iscritti.

[Racconto a 2n mani] Quarta parte

All'epoca in cui furono introdotte le interfacce neurali nel settore
turistico, molti furono gli oppositori e questo fece in modo che il loro
prezzo lievitasse senza abolirle rendendole accessibili solo a clienti molto
facoltosi come quelli dell'Overlook.
L'interfaccia dava l'impressione che le cose fossero esattamente come si
voleva, ma il problema era che bisognava avvicinarsi in maniera cauta. Un
impatto troppo invasivo avrebbe potuto stravolgere completamente la
percezione sensoriale di un uomo, provocandogli attacchi di schizofrenia
curabili solo con numerose sedute dallo psicanalista.
Arch Stanton, per quanto fosse ben pagato alla compagnia, con il suo
stipendio da fattorino spaziale non aveva mai potuto permettersi una vacanza del genere e quindi quello era il suo primo contatto con le interfacce neurali.
Tutto quello che voleva Arch era riabbracciare sua moglie. La visione di
quest'ultima gli aveva completamente fatto dimenticare cosa stava facendo lì.
Non esisteva più Jack Torrance, l'AL76, e neanche l'Overlook Hotel. Si
trovava a Key Lake con sua moglie e l'immagine allo specchio del piano bar gli rimandava una sua immagine più giovane di quasi trent'anni.
Sorseggiavano un gin tonic seduti al bancone mentre si guardavano
intensamente negli occhi. Chiunque li avesse visti avrebbe detto che quello
era vero amore, quello evidente, che si riesce quasi a toccare con mano.
- La gita in barca oggi è stata molto bella, vero Arch?-
- Già ma ora sono terribilmente stanco. Non hai voglia di andare in camera, Nancy? -
- Si, ma. non ti addormenterai mica? -
Di fronte a quella richiesta palese Arch non si contenne e la baciò
passionalmente noncurante di tutti gli altri avventori dell'hotel.
Non gli piaceva la gente che si scambiava effusioni in pubblico in quel
modo, ma lui era Arch Stanton ed amava sua moglie Nancy. A lui era permesso.
Decisero di finire di amoreggiare nella loro stanza, la 623, dove passarono
tutta la notte in un turbine di passione.
Verità o finzione che fosse, Arch se la stava decisamente spassando, lo
stesso non si poteva dire del suo socio Jack.
Quella notte su A2546-KUH sarebbe durata appena 2 ore ma a Jack parvero un' eternità durante la quale naturalmente non riuscì a riposare degnamente per colpa dei suoi dubbi che scatenavano molteplici domande alle quali non riusciva a dare risposta.
Era stata davvero una buona idea quella di aspettare la luce di Omicron
Persei? Non sarebbe stato meglio forse agire con la complicità delle
tenebre?
Il gigante gassoso intorno cui ruotava il piccolo satellite dava una strana
colorazione bluastra al paesaggio vulcanico del terreno, lo stesso colore
della tuta di Jack. Avrebbe potuto benissimo mimetizzarsi, sempre che fosse servito a qualcosa di fronte a quegli esseri sconosciuti di cui lui non
sapeva nulla.
Fino ad allora in tutta la galassia conosciuta non era stata ancora trovata
traccia di alcuna forma di vita intelligente oltre i terrestri, dunque chi
erano quegli esseri? Era forse stato il primo a scoprirli? Magari gli
avrebbero dedicato il nome della specie, tipo i torrancis. Mise da parte
questo pensiero grottesco e si avvicinò all'entrata dell'albergo.
La bassa gravità della luna sulla quale si trovava gli permise di essere
vicino all'Hotel con un paio di balzi, ma ora si trovava di nuovo di fronte
alla scelta di poche ore prima a bordo della nave. Che fare? Entrare o
rimanere fuori?
Decisamente cominciava a pentirsi di essere entrato nella barriera, quindi
decise di non commettere lo stesso errore e fece un giro di perlustrazione
attorno all'hotel anche se c'era ben poco da controllare.
L'albergo era stato completamente scavato all'interno del monte. Solo l'
entrata era visibile e chissà quanti sottopassaggi erano presenti all'
interno.
All'esterno tutto sembrava tranquillo e non c'era traccia di quegli esseri
ripugnanti capaci di cambiare forma. La cosa più importante era quella di
cercare Arch. Forse all'interno della barriera era possibile rintracciarlo
via radio con il comunicatore portatile presente nell'equipaggiamento della
tuta.
- Arch, sono Jack, mi senti? - Sapeva che non avrebbe avuto risposta dall'
amico. Un fruscio di onde radio seguì la sua comunicazione anche se ad un
tratto il brusio cessò, come se qualcuno avesse preso la sua comunicazione.
Un piccolo raggio di speranza si aprì nell'animo scuro di Jack.
- Arch, sono io, mi senti? - niente.
- Rispondi Arch! - solo il brusio gli rispondeva. Cosa voleva significare?
Forse Arch non era all'interno dell'hotel? Decise di fare un ultimo giro nei
paraggi dell'entrata e se non avesse trovato il collega o qualche sua
traccia si sarebbe deciso ad entrare.
Il colore del pianeta stava cambiando dal bluastro al rosso porpora passando da sfumature viola. Ora capiva perché la gente era disposta a spendere tanti soldi per un soggiorno in quell'hotel. Lo scenario era davvero suggestivo.
Con un paio di balzi fu in cima al monte per cercare di avere una visuale d' insieme del panorama.
Jack trovò che se non fosse stato quel gigante gassoso a fare come da
secondo sole, il resto non era niente di particolare. Sabbia ferrosa e
crateri tutt'intorno. Fu proprio all'interno di uno di questi che vide la
scialuppa di Arch.
Forse aveva avuto un incidente ed era rimasto lì, avrebbe avuto bisogno di
cure. Che fosse morto non ci voleva neanche pensare. E pensare che era
prossimo alla pensione. Povero Arch!
Arrivò vicino alla nave, correndo con un'andatura piuttosto goffa che gli
procurava la tuta ingombrante e la bassa gravità di quel pianeta in
miniatura. Aprì il portellone della scialuppa e fu all'interno.
L'abitacolo della navicella era piuttosto piccolo. C'erano due posti e i
comandi piuttosto vicini ai sedili che avrebbero impedito a qualsiasi
persona alta più di un metro e novanta di posizionarsi in maniera comoda, ma di Arch non c'era traccia.
Ormai era deciso. Doveva entrare nell'hotel, ma non fece in tempo a girarsi che una di quelle figure aliene gli bloccava l'uscita dalla navicella con un' espressione che probabilmente poteva essere interpretata come un ghigno. E ora?

Arch si svegliò e sentì la voce lontana di Jack chiamarlo. Chi era Jack
Torrance? La Compagnia, l'AL76, L'Overlook Hotel. Sentiva di stare
abbandonando la fase rem ed aprì gli occhi. Dov'era? Ricordava sua moglie e la cercò con il braccio ma...
Sua moglie era morta vent'anni fa ed entrambe le sue braccia erano legate dai polsi come le gambe erano legate dalle caviglie ai bordi di un tavolo.
Cosa stava succedendo? L'unica cosa che fu capace di fare fu di gridare.
Fu da quest'urlo che si svegliò di nuovo, ma questa volta era a Key Lake, in un letto a due piazze con Nancy in camicia da notte e senza biancheria
intima di fianco a lui che fu svegliata da quell'urlo.
- E' solo un incubo Arch, calmati.-
Arch si girò a guardare gli occhi assonnati ma sempre belli della sua donna.
- Si, era solo un incubo, scusami se ti ho svegliato, Nancy.-
Si abbracciarono e si baciarono prima di rifare di nuovo l'amore.


(by Ermanno Viola)

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Premio Alien

Il premio Alien si è da sempre contraddistinto per l'elevata qualità dei partecipanti e per i numerosi sbocchi editoriali che offre. Per partecipare è necessario versare una quota di 13 euro per ogni racconto e di 5 euro per ognuno dei successivi, senza limiti di numero. Il concorso viene ripetuto ogni anno, con centinaia di partecipanti.
Il concorso è dedicato ai racconti di fantascienza, inediti o editi purché il copyright sia di sola proprietà dell'autore. I racconti partecipanti devono essere di massimo 10 cartelle dattiloscritte (da 2000 battute ciascuna).
Ogni autore può partecipare con più di un elaborato.
La partecipazione al premio comporta la cessione dei diritti di pubblicazione dell'opera partecipante per una eventuale antologia collettiva che raccolga i racconti partecipanti al concorso, a cura dell'organizzazione stessa del premio.
Le opere vanno inviate preferibilmente via Internet, all'indirizzo: premioalien@libero.it.
Ai 10 finalisti di ogni sezione andranno targhe e attestati di merito, e ai primi tre classificati una somma in denaro in percentuale sulla quota totale versata dai partecipanti.
Clicca sul titolo dell'articolo per maggiori informazioni.

Racconto a 2n mani

L'idea di scrivere questo racconto a più mani è nata sul newsgroup
it-alt.arti.scrivere.fantascienza.
Per leggere il racconto, cliccate sul capitolo corrispondente.

Capitolo 1 - by MaxArt
Capitolo 2 - by Sim1
Capitolo 3 - by Outspan
Capitolo 4 - by Ermanno Viola
Capitolo 5 - by klbls
Capitolo 6 - by Pauline

[Racconto a 2n mani] Terza parte

Guai seri. Arch era nelle grane, Jack Torrance ne era ormai praticamente
certo; e se Arch era nei guai, allora lo era anche lui. Aveva riaperto gli
occhi dopo il breve sonnellino, svegliato dalla voce del computer di
bordo. Ora il display mostrava al suo viso ancora assonnato una lista
interminabile di tutti gli incidenti spaziali occorsi negli ultimi
decenni: avarie, guasti meccanici, qualche raro caso di collisione, ma
nulla di simile a un incidente di quel tipo. Scorse la lista in cerca
di...il movimento dei suoi occhi si arrestò di colpo. Ma che cosa stava
cercando, poi? Che cosa era successo? Jack non ne aveva idea. La
comunicazione radio si era interrotta bruscamente, questo sì, ma poteva
essere stata una semplice interferenza o un guasto della ricetrasmittente,
per quel che ne sapeva lui. Già, forse Arch se la stava spassando laggiù
all'Overlook Hotel, a contemplare quel paesaggio tanto speciale da
costituire un'attrattiva turistica; forse se ne sarebbe tornato tra una
mezz'oretta, aperitivo in mano ed sorrisetto ebete stampato in faccia, a
dire che era tutto a posto, di iniziare scaricare la merce. Eppure...c'era
qualcosa di molto strano in quella situazione. Perché alla barriera
planetaria non aveva risposto nessuno? E perché tutto sembrava spento,
abbandonato? Torrance prese la radiotrasmittente ancora una volta, voleva fare un ultimo tentativo. Sentì la sua stessa voce parlare senza convinzione.

- Arch... Arch, riesci a sentirmi?

Rispose soltanto un fruscio lontano. Ora la sola cosa che gli rimaneva da
fare era andare a controllare di persona. Maledicendo il giorno in cui
aveva fatto domanda per diventare un fattorino spaziale, Jack mise in moto la AL-76 e si diresse su quel mondo per lui semisconosciuto. Nel frattempo, grazie al pilota automatico, sfruttò i pochi minuti di viaggio che lo separavano da quel pianeta per mandare una tachiocapsula con un
messaggio di segnalazione alla compagnia di trasporti. Incluse le coordinate spaziali del pianeta e una breve descrizione della strana situazione che si era venuta a creare. La compagnia avrebbe interpretato quei dati e fornito indicazioni sul da farsi: sarebbe probabilmente trascorso più di un mese prima di ricevere una risposta, ma era comunque meno del tempo che avrebbe impiegato viaggiando nello spazio fino alla ditta con la sua nave-cargo; e poi, non poteva certo lasciare il suo compagno di viaggio laggiù! Stava ancora raccogliendo quelle poche idee
quando la nave giunse a qualche centinaio di metri dalla barriera planeteria. Al segnale di inizio frenata volle dare un primo sguardo alla barriera, dal finestrino laterale. Lo attendeva uno spettacolo quantomai strano: la barriera era chiusa, questo sì, ma non era tutto. C'erano
almeno una dozzina di grosse smagliature nella rete di protezione, segno che diverse navicelle avevano tentato l'ingresso con la forza e che, a giudicare dalle dimensioni delle smagliature, ci erano anche riuscite.

Jack Torrance poteva vedere i buchi restringersi e riallargarsi a
intervalli irregolari, dalla distanza a cui si trovava. Pensò che Arch
doveva essersi avvicinato troppo alla barriera senza avvedersene. Questo
avrebbe spiegato almeno un paio di cose: poteva aver visto un foro
riallargarsi proprio davanti a sè, e averlo interpretato come un invito ad
entrare. Stette ancora a pensare sul da farsi, ma c'era poco da pensare:
attese il formarsi di un buco più grande e attraversò quella fitta
ragnatela.

Vide da subito l'hotel, ai piedi di un monte innevato; da quella distanza,
l'edificio pareva abbandonato. La prudenza gli suggerì di posteggiare
l'astronave in un luogo riparato, distante dall'hotel e nascosto alla
vista da un gruppo di rocce, ai margini della strada che portava
all'Overlook. Poi si mise sulla strada, e tenendosi regolarmente qualche
metro più a destra della larga via liscia e di nero asfalto, nascosto
dalla vegetazione che la accompagnava, giunse a pochi metri dal grande
edificio. Decise che avrebbe atteso qualche minuto per riprendersi
dall'emozione e osservare eventuali movimenti all'interno. Si fermò al
termine della macchia di vegetazione che l'aveva accompagnato fino a quel momento, scelse un qualcosa che assomigliava vagamente a un cespuglio e ci si sdraiò dietro, in attesa.

Fece appena in tempo. Qualche istante più tardi vide un'astronave, non una cargo ma una nave turistica, di quelle di classe, passare anch'essa
attraverso la barriera, con una certa titubanza, e posarsi poi nell'area
di parcheggio riservata alla clientela. Ed ebbe un fremito di paura: dalla
porta principale dell'Overlook Hotel uscirono due esseri flaccidi, la
pelle ambrata, gli occhi tondissimi come gialle monete, le voci molli. Se
avesse dovuto dar loro una forma, Jack non avrebbe saputo dire; la forma
ora di un grosso quadrupede librato sulle zampe posteriori, ora di un
piccolo uomo dagli occhi tondi e paurosi, ora di una massa informe,
indefinita e incolore. E quando la porta dell'astronave si aprì...Jack
restò senza fiato per molto più di un attimo. Come la porta della nave
s'aprì e toccò il suolo, ne scese una ventina di persone di grande
eleganza: cappelli tubulari e frac bionici i signori, e capelli lavorati,
vestiti in fulmicotone sintetico e scarpe bizzarre le donne, come imponeva
la moda del XXIII secolo. E nonappena il primo cliente mise piede a terra,
appena un secondo prima che volgesse uno sguardo a quei paurosi
mostri...meraviglia! Quegli esseri ripugnanti cambiarono forma proprio
davanti agli occhi di Torrance, davanti ai suoi occhi increduli; la massa
informe diventò un naso, labbra, occhi, braccia, busti umani, e i due
presero la forma di due camerieri vestiti con eleganza, ma di un'eleganza
che era estranea alla maggior parte degli avventori. I pochi di loro con
una certa familiarità in materia avevano riconosciuto nei vestiti degli
alieni la moda degli anni '50 del ventesimo secolo. Tra lo stupore e il
compiacimento della folla, che pensava a una festa in maschera o
all'ultima novità della moda spaziale, si fecero accompagnare da quelle
presenze aliene, ma per loro familiari ed affabili, all'interno
dell'hotel. Altre mani aliene giunsero dall'interno per caricare i bagagli
e scortare i clienti nell'hotel.

Jack li vide scomparire tutti dietro la porta. Ora sapeva. Ma che poteva
fare? Come stava Arch, era anche lui lì dentro? E che cosa poteva fare
lui, Jack Torrance, contro un'orda di rapitori alieni e per giunta, da
quel che aveva visto, quasi certamente telepatici? Non lo sapeva. Mentre
tentava ancora di darsi delle risposte, ecco che giunse un'altra nave, più
capiente della prima: attraversava titubante la barriera planetaria per
poi atterrare, giusto di fianco alla prima. Ne scese una trentina di
clienti...

Un dubbio gli balenò in testa. Stavano forse architettando un sequestro?
Sarebbe stato di certo quello dalle dimensioni più grandi, se non il più
grande, nell'arco di decenni e decenni. Quante persone poteva contenere
quell'albergo, mille, duemila? E tutta gente piena di soldi fino all'orlo,
tutta gente importante per cui si sarebbe potuto chiedere un riscatto a
dir poco spropositato. E ora, che fare? Jack ci pensò un po' su e decise
che, qualsiasi cosa avrebbe fatto, avrebbe atteso il mattino seguente per
agire. Il mattino ha l'oro in bocca, disse tra sè. Sorrise.

Nel frattempo Arch non se la passava male, o almeno lui non lo pensava
affatto. Tra la folla dei clienti che erano seduti in sala quando era
entrato, aveva riconosciuto sua moglie. Sì, proprio così: sua moglie
Nancy, morta e defunta vent'anni prima a causa di un incidente, la sua
cara Nancy, per cui aveva dato tutto, ora lo stava abbracciando, mentre
lui chiedeva spiegazioni.

- Nancy! Tu qui! Fatti abbracciare...
- Arch, caro...
- Ma come...come è possibile, Nancy? Siamo forse in Paradiso?
- Ma no, Arch...
- Che cosa sta succedendo, allora?
- Non preoccuparti, Arch, ora ci sono qua io, è questo che conta...
- Già, è solo questo che conta...

E si baciarono.

Arch vide gli eleganti avventori sbarcati pochi minuti prima, scortati dai
due camerieri in divisa elegante, entrare nella hall pochi secondi più
tardi. Restarono tutti quanti a bocca aperta. C'era chi vedeva il
ristorante dei propri sogni, chi un grand hotel mozzafiato, chi
addirittura un immenso campeggio di lusso nell'Overlook Hotel, ma tutti
riabbracciarono i loro cari defunti. I loro discorsi suonavano tutti più o
meno uguali, sotto quel grande lampadario, o bel soffitto, o cielo
stellato:

- Ma come...
- Che c'è, caro?
- Com'è possibile...tutto questo non ha senso...come puoi essere qui,
amore?
- Non darti pensiero, dai...l'importante è che siamo di nuovo vicini
ora...
- Sì, hai ragione...non pensiamoci più. Ti amo.
- Ti amo.

E si baciarono. Tutti quanti.


(by Outspan)

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[Racconto a 2n mani] Seconda parte

Di primo acchito Jack Torrance si sentì raggelare il sangue. Per due motivi.
Primo: ma proprio a lui doveva capitare una situazione simile? Proprio a lui che era tutto fuorchè un cuor di leone?
Secondo: adesso che fare?
Il suo cervello sembrava quasi annebbiato in quel bailamme di brutti
pensieri.
Doveva restare calmo, prima di tutto.
Istintivamente spense le luci della cabina di pilotaggio e iniziò a
respirare profondamente. Motivo: tentare di rimettere ordine nel caos.
Già, perchè quelle missioni se si chiamano *di routine* allora dovrebbero
proprio esserlo.
Invece ora si trovava da solo, nello spazio alieno di
a2546-KUH, in una situazione a dir poco spiacevole. Arch era scomparso, o almeno quella era la percezione che aveva lui dall'interno della sua cabina, e che i sensori della navetta container sembravano confermargli.
Il protocollo in quei casi era semplice: attendere rinforzi. Sì, bravi, e
magari Arch ci avrebbe lasciato la pelle.
Insomma che fare?
Jack riaccese la luce e inziò a scartabellare il suo mansionario. Senza un
motivo preciso, in realtà. Quantomeno strano che su un mansionario ci possa essere la soluzione ai suoi problemi. Anzi, su un mansionario c'è l'ovvio, a lui serviva definitivamente lo strambo.
Convintosi dell'inutilità delle sue più recenti mosse, allora iniziò a
interrogare il computer di bordo.
Il computer era ad attivazione vocale, visto che la AL-76 ultimamente era
stata soggetto di un deciso upgrade tecnologico. Per lui però, pioniere
delle vecchie generazioni computazionali, il dover chiedere *per favore* ad una macchina risultava quantomeno ostico secondo i suoi modi di pensare.
Ma non aveva molta scelta. Ci sarebbe dovuto essere un qualche precedente no? Tutto quel ben di Dio di enciclopedia galattica doveva pur contenere qualcosa?!
"Computer, per favore, mi mostri gli incidenti più recenti relativi ai
viaggi di navi container?".
La voce metallica e vagamente femminile del computer non si fece attendere, ma prima venne preceduta da un bip.
"Restringere campo di ricerca prego.".
Jack imprecò in tutte le lingue pensabili. Ma quale accidenti campo di
ricerca!
"Maledetto computer! Qual'è la parte di incidenti di navi container che non
ti è sufficientemente chiara?? Eh!?".
Il computer gracchiò, quasi in segno di sfida:
"Impossibile eseguire. Ridefinire la domanda prego.".
Jack tentò di mantenere la calma.
"Ok, bene, computer! Mostrami tutti gli incidenti occorsi in missioni di
rifornimento negli ultimi cinquant'anni, grazie.".
Qualcosa sembrava essere andata per il verso giusto adesso!
Il computer stava macinando dati su dati sul display virtuale situato nella parte destra del *parabrezza* della cabina di pilotaggio.
L'ETA della conclusione dell'elaborazione dei dati segnava ancora dieci
minuti.
Il tempo per un breve sonnellino per Jack, il quale esausto dal
recente stress, si ritrovò immediatamente stanchissimo.
Nel frattempo Arch Stanton era in paradiso.
No, ovviamente non era morto.
Una volta al di là della fantomatica barriera si era ritrovato nel lusso più
sfrenato.
Incredibile. Era stato più volte nell'Overlook Hotel ma non se lo ricordava
così.
Pensò immediatamente a un ammodernamento o, forse, a una nuova
interfaccia neurale cliente-hotel per fare in modo di rendere il soggiorno
il più perfetto possibile.
E forse quest'ultima opzione non era così sbagliata.
Quell'hotel assomigliava infatti all'hotel in cui lui e la sua povera moglie
Nancy passarono una delle più belle vacanze della loro vita da coppia.
Una porta scorrevole faceva da comunicazione tra il bellissimo patio/cortile
e l'interno dell'hotel.
Senza indugi Arch si diresse dentro. La curiosità era tale che avrebbe fatto
più o meno di tutto per entrarvi. E poi da dentro, magari, sarebbe riuscito
a contattare Jack e la AL-76.
Insomma la risposta era al di là di quella posta scorrevole. E Arch vi
entrò.
Una luce del tutto naturale e simile al sole della Florida sembrava
irradiare in maniera quasi artistica l'interno dell'hotel.
Arch si sfilò il giubbotto della tuta e rimase in canotta. Faceva caldo, un
caldo abbastanza umido, ma non opprimente. Si stava molto bene. Le immagini della vacanza a Key Lake con Nancy riaffiorarono nella sua mente all'istante. E una piccola lacrima gli solcò il volto.
L'immagine che gli si posava davanti era piuttosto impressionante.
Una hall degna del miglior hotel cinque stelle del ventesimo secolo. Con un
enorme lampadario in cristallo al centro di essa e la reception all'estrema
destra della grossa sala d'arrivo.
Il pavimento era rivestito nella striscia centrale da una moquette viola che
emanava una gradevolissima fragranza di velluto, e sullo sfondo si stagliava l'immensa scalinata che portava alle camere.
Arch si diresse subito verso la reception per comunicare il loro arrivo e
soprattutto l'incidente in cui erano accorsi.
Non vi era nessuno, però c'era l'apposito campanellino per richiamare
l'attenzione del personale. Senza pensarci due volte Arch lo premette,
facendo emettere un tintinnio metallico veramente molto molto fastidioso.
Nell'attesa che qualcuno arrivasse si guardò in giro (prima era troppo preso a rimirare la bellezza dell'hotel) e vide alcuni clienti seduti sui
divanetti antistanti alla reception.
Notò subito che i loro vestiti erano decisamente desueti per il tempo in cui
viveva Arch.
Sebbene non fosse esattamente un amante della storia dell'abbigliamento,
questi vestiti sembravano risalire alla metà del ventesimo secolo. Quindi,
in maniera totalmente empirica, stimò un suo ritardo di circa tre secoli.
L'attenzione verso i clienti dell'hotel fu distolta da un rumore di passi in
lontananza.
Rigiratosi istintivamente verso la reception vide finalmente il concierge
che da un corridoietto stava arrivando in tutta fretta.
Un signore bianco, di bassa statura, un po' tarchiato e con un'evidente
pelata sulla nuca. Tutto ingessato nella sua uniforme dello stesso viola
della passeggiata, portava una mostrina all'altezza del petto. Ad Arch bastò leggere la mostrina per sapere il suo nome: Miles Muldaur.
Il suo tono di voce era molto rassicurante.
"Buongiorno Signore, benvenuto al Lake Astoria.".
Quella breve frase ebbe un solo significato per Arch: guai seri.


(by Sim1)

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[Racconto] Vita



[scarica il racconto in .pdf]
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Donovan palpitava dall’emozione. Aveva finalmente completato il suo progetto, e aveva invitato Powell ad assistere al collaudo iniziale proprio lì dove si trovava lui ora, all’interno del laboratorio di Robomeccanica e Telematica dell’Università degli Studi del New Jersey, U.S.A, Terra.

Aveva telefonato a Gregory Powell, grande amico e compagno di studi, nonappena l’ultimo contatto era stato sistemato, anche se sapeva che Gregory era sempre stato scettico. Ma lui l’aveva presa come una sfida: l’avrebbe fatto finalmente ricredere, proprio lì, davanti ai suoi occhi.

Gregory era in ritardo di alcuni minuti, e Donovan cominciava ad innervosirsi. Lui che arrivava sempre puntuale, se non in anticipo, alle lezioni, non riusciva a tollerare l’atteggiamento dell’amico, che tanto per cambiare era in ritardo anche questa volta.

La lancetta dell’orologio a muro scattò sulle nove e sei, e la porta del laboratorio si aprì.
Ne entrò un ragazzo abbronzato, i capelli biondi arruffati e cuffie enormi nelle orecchie, che attirò all’istante la metà degli sguardi femminili del laboratorio. Il ragazzo si avvicinò a Donovan… o meglio agli occhi infuocati di Donovan, che non riusciva a lasciar correre.

«Ehilà, Don!»
«Le cuffie… »
«Che cos… ah già, scusa… »

Donovan volse quindi l’attenzione al piccolo uditorio che si era formato in quegli ultimi minuti attorno al suo banco da lavoro.
«Bene, ora che ci siamo tutti possiamo cominciare… ma prima una piccola premessa. I ringraziamenti a Matt Bowman e Jim Daveson per la collaborazione e per i loro preziosi consigli sono più che doverosi. Grazie per avermi assistito in questi tre mesi!»
Un breve applauso, due timidi sorrisi. Poi Donovan riprese a parlare.

«Ma basta con le cerimonie. Ecco Tob!», disse rivelandolo al pubblico.
Un robottino, pensò Powell. Don aveva lavorato tutti quei mesi per quel… coso?
Gli altri presenti, invece, sembravano estasiati da quella visione. Tob era alto all’incirca un metro e settanta, antropomorfo, con un aspetto che, pur se rigido, lo faceva sembrare quasi vivo: le braccia erano coniche e slanciate, il busto vagamente squadrato, un’espressione facciale che ricordava cento film di fantascienza. Da questo punto di vista, si diceva Powell, Don aveva fatto un buon lavoro. Ottimo, anzi: l’aspetto era decisamente… umano. Ma si sarebbe potuto dire altrettanto del suo comportamento?


«A te l’onore, Matt!» Donovan porse al collega un piccolo telecomando.
«Grazie… » e azionò la creatura.

Un lieve cigolio. Tob scrollò la testa e cominciò a parlare.
«Tob… Per servirvi, signori.»
La sua voce era perfettamente articolata, lineare e… umana. Ma gli occhi di Powell si illuminarono.

Donovan riprese la parola. «Bene Tob, mostraci quello che sai fare… » prese un libro aperto dalla scrivania e lo porse alla sua creatura. Tob mosse agilmente le dita metalliche e lo afferrò con entrambe le mani.

«Su, che cosa aspetti? Avanti, inizia a leggere!»
Lo sguardo di Tob passò dal suo creatore al libro. Una voce soave, sicura e per nulla scandita invase d’un tratto il piccolo laboratorio.

«Un robot non può recar danno e un essere umano, né permettere che, a causa della propria negligenza, un essere umano patisca danno. Un robot deve sempre obbedire agli ordini degli esseri umani, a meno che non contrastino con la Prima Legge. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non contrasti con la Prima o la Seconda Legge.»

«Basta così, Tob.»
Dal laboratorio si levò spontaneo un applauso. Applaudirono tutti… tranne uno.

«Grazie, grazie, ma la dimostrazione non è ancora finita… ecco, Tob, ora facciamo due chiacchiere, ti va? Anzi, perché non fai due chiacchiere con Janet, che ne dici?»
«Sissignore, Tob lo fa con piacere!»

Janet si avvicinò al robot.
«E così, Tob, sei un robot intelligente, mmh?»
«Sissignore, signora.»
«Eheh… basta un ‘ok’, non preoccuparti!»
«Ok, signora.»

Una risata.
«Che cosa sai fare, Tob?»
«La signorina vuole l’elenco completo?»
«Oh… no, voglio dire… sai cucinare?»
«Cucinare?»
«Sì, voglio dire… far da mangiare, preparare cibi…»
«Tob può imparare a cucinare se vede la signorina farlo.»
«Wow! Lo sai, mi servirebbe proprio uno come te in casa, eheheh…»

Tob era rimasto impassibile.
«Tob può cucinare se la signorina lo ordina.»
«Sì, sì, d’accordo… la conversazione non è il tuo forte, mmh? Comunque Don ha fatto un ottimo lavoro, lo sai? Sembri davvero un umano…»

Per uno dei presenti questa frase era troppo.
«Tirati un pugno, Tob!»
Una mano metallica lasciò cadere il libro e si conficcò nel proprio petto con un fragore devastante.

«Un altro!»
La mano partì ancora a gran velocità, deformando con l’impatto la lamiera del busto.

«Gregory! NO!!»
«Avanti, mostro! Non ti ho detto di fermarti! Ancora!»
«Tob! Non ascoltarlo!»
«Forza! Un altro colpo!»
«Non farlo, Tob!»

Scintille.
«BACIAMI IL CULO, TOB!!»
«Ma che cazzo ti prende, Gregory? FERMO, Tob!!»

Fiamme.
«COLPISCITI! Colpisciti… ancora… ancora…»

Tob prende fuoco. Le braccia, le gambe, il cervello positronico, i sensori visivi… tutto si spegne simultaneamente. Donovan si avvicina minaccioso a Powell.

«Perché, Greg? PERCHE’?!?»
«Don… guardalo… volevi che fosse un essere umano… ma guarda che cosa hai creato… era un servo, non lo vedevi? Soltanto un servo… in tutti questi mesi hai lavorato per creare un servo… toglitelo dalla testa una volta per tutte, Don… non potremo mai creare un uomo… soltanto servi… servi che leggono, che conversano, che cucinano o che mi baciano il culo… ma resteranno sempre e solo servi, Don. E’ da quando ti conosco, da quando sei qui dentro che ci provi… stammi a sentire, non si può fare… per quanto saranno intelligenti e plastici nei movimenti, non potranno mai… non potranno mai scegliere, Don. Secondo te ci ha pensato su anche un solo istante prima di martellarsi lo stomaco? Eh? Io non credo proprio… ascoltami, Don, lascia perdere, lascia perdere…»

Le luci si spengono nel laboratorio di Robomeccanica e Telematica dell'Università degli Studi del New Jersey, U.S.A, Terra. Ne escono due ragazzi, le mani l'uno sulla spalla dell'altro, che tra il baccano del corridoio si dirigono al bar più vicino.

[Racconto a 2n mani] Prima parte

La situazione era semplice: doveva essere dentro, ma era fuori. Come conciliare le cose... beh, era tutto un altro paio di maniche. Non si era mai trovato a dover fronteggiare una tale dicotomia, e tuttavia era innegabile che quella fosse la volta buona. Inutile discutere: quella dannata barriera planetaria teneva Jack Torrance fuori dalla superficie di quel sasso vagante che ora chiamavano Overlook Hotel.
Torrance non si sarebbe mai detto un uomo di azione. Aveva svolto molti mestieri su e giù per l'Ammasso Locale (sempre che "su" e "giù" avessero senso in un ambiente percorso liberamente in tre dimensioni e forzatamente in una quarta), ed ora pareva essersene trovato uno decente. Ironia della sorte, era quello che più di tutti lo sbatteva da una stella all'altra: trasportava merci per conto terzi. Un fattorino spaziale.
Non gli dispiaceva affatto come lavoro. Era un'occupazione semplice e certo non di cui farne un vanto, ma gli consentiva di guadagnare abbastanza per sé e per mantenere quell'oca della sua ex-moglie Shelley (una donna slavata ed isterica) e quel marmocchio di Danny, che, per quanto Torrance poco s'intendesse di patologie infantili, gli pareva piuttosto squilibrato. Quel bimbo s'immaginava le cose e sentiva le voci. Va bene avere un amico immaginario, ma Danny arrivava a parlare al suo dito indice, e Torrance aveva vergogna di mostrarlo in giro e dire: "Questo è mio figlio.
"No, molto meglio quella pace. Il compito di Torrance consisteva solo nell'accompagnare una navetta container da un posto all'altro, e svolgere quelle poche mansioni aggiuntive che le diverse tipologie di carichi gli imponevano. Aveva sempre una scaletta da seguire e non muoveva un dito di più: raramente si intendeva dei carichi trasportati, l'assicurazione non avrebbe coperto eventuali danni e soprattutto nessuno gli avrebbe mai dato un soldo. La rotta era precalcolata, in una missione normale nessun comando di rotta sarebbe dovuto essere impartito alla nave.
Tutto questo consentiva a Torrance di passare molto tempo inattivo durante i voli. Naturalmente, si sarebbe potuto ibernare: i viaggi potevano durare settimane. Tuttavia, ricorreva poco a quella pratica, perché poteva sfruttare il tempo libero con lo scrivere, uno dei suoi passatempi preferiti, che tra l'altro riusciva a realizzare al meglio quando era solo con se stesso. E questo accadeva quasi sempre nello spazio cosmico."Quasi sempre", perché in quel viaggio Torrance non era solo. La compagnia di trasporti aveva la politica di non far viaggiare troppo i conducenti da soli, per cui venivano creati equipaggi di due persone ad intervalli di tempo programmati. Per non creare scompensi psichici da solitudine, dicevano gli psicologi. La compagnia si addossava tutti quegli oneri unicamente a fronte del rischio di denunce. I carichi erano tutti assicurati.
Il compagno di viaggio di Torrance si chiamava Arch Stanton. Era un arzillo signore di colore, dall'età avanzata, prossimo alla pensione. Una moglie morta in un'incidente venti anni prima, ora viveva per lo spazio. Grande esperienza, era ritenuto di grande affidabilità. Avrebbe dovuto accompagnare Torrance sino a destinazione, e poi sarebbero tornati come programmato. La navetta avrebbe fatto tutto da sola. E invece non era stato possibile fare niente, e ora Stanton non c'era più.
Qualche ora prima, la navetta AL-76 di Torrance e Stanton era entrata a contatto visivo col pianetino A2546-KUH. Il pianetino A2546-KUH non aveva nulla di interessante né sfruttabile dal punto di vista geologico. Era uno dei tanti sassi che formavano uno degli anelli attorno ad Omicron Persei 3, un inutile gigante gassoso grosso un terzo più di Giove. Però, indubbiamente, quel cielo polveroso dava riflessi incredibili ed un paesaggio spettacolare. Era per quel motivo che A2546-KUH era stato interamente scavato all'interno e da esso erano stati ricavati numerosi locali. Ora era a tutti noto come l'Overlook Hotel: roba da ricchi. Eppure anche quell'albergo, come tutti, necessitava di periodici rifornimenti, e Torrance era lì per quello. Solo che al momento delrendez-vous radio con la direzione, nessuno rispose.
- Vado a controllare con la scialuppa - disse Stanton.
L'anziano negro indossò la tuta d'ordinanza con noiosa dovizia, quindi attraversò l'oblò che fungeva da entrata alla scialuppa, e lo richiuse. Dopo pochi secondi, il computer di bordo aveva calcolato la rotta d'avvicinamento all'obiettivo ed il piccolo natante spaziale si staccò dolcemente dalla navetta, sospinto dalla buona vecchia propulsione chimica.
- Non schiantarti contro la barriera - comunicò Torrance.
- Tranquillo, mi avvicino soltanto e tento un contatto radio da vicino. -rispose Stanton - Tu, piuttosto: comunica il problema alla compagnia. C'era tutto il tempo di formulare il messaggio da spedire. Per quanto rivoluzionaria fu la scoperta della dimensione tachionica, spedire una capsula contenente un messaggio non era comunque un sistema abbastanza veloce per comunicare a distanze interstellari. Prima che potesse raggiungere qualcuno in grado di prendere una decisione in merito, la missiva avrebbe potuto impiegare diverse settimane in viaggio. A questo c'era da aggiungerci il tempo necessario perché arrivassero i soccorsi, trascurando poi il non trascurabile tempo in cui i cervelloni della compagnia avrebbero attivato una quantità sufficiente di neuroni da consentir loro di deliberare.
In sostanza, quindi, era quello il motivo per cui i fattorini spaziali venivano pagati e pure abbastanza bene: avrebbero dovuto cavarsela da soli. La comunicazione radio era ovviamente del tutto inutile a distanze astrali, e le capsule tachioniche erano talmente dispendiose in termini energetici ed economici che il loro utilizzo era severamente regolamentato nonché limitato ad un massimo di tre capsule per navetta. Oltre a questo, ogni cargo eradotato di una scialuppa di salvataggio per due persone; tre tute spaziali (una in più, in caso di malfunzionamenti); due pistole laser per uso civile(versatili, ma a bassa potenza e carica); comunicatori radio personali; una ricca documentazione enciclopedica caricata nel computer di bordo; attrezzi vari per riparazioni di fortuna. Il resto era lasciato all'inventiva dell'equipaggio.
La scialuppa che conteneva Stanton aveva pigramente percorso i 250 chilometri e rotti che separavano l'Overlook Hotel dalla AL-76. Ormai quella scatoletta era solo una macchiolina confusa sull'ingrandimento visivo.
- Sono vicino alla barriera. E' chiusa. Mi fermo e provo a comunicare. -trasmise Stanton.
- Vedi qualcosa? Qualche attività? - rispose Torrance.
- No... proprio no. Anzi, direi che è tutto spento. Direi addirittura che è abbandonato.
- Come sarebbe "abbandonato"?
- Sarebbe che non c'è nessuno. Non si muove niente, non vedo alcuna luce accesa.
- Molto strano. Ma non è che è chiuso?- E manco ci avvertono? E poi, non risponde nessuno? Neanche il guardiano? Seguirono secondi di silenzio e di attesa.
- La barriera si è aperta! - disse Stanton.
- Davvero? Allora non è abbandonato. Ma hanno risposto? - disse Torrance.
- No, però... sembra un invito ad entrare. Avranno difficoltà tecniche. Io vado.
- Non so se è una buona idea.
- E che vuoi che mi facciano? Che mi rapiscano? - rispose Stanton sghignazzando. - Lo so che è molto strano, ma qualcosa dobbiamo pur fare. La scialuppa entrò lentamente all'interno della barriera planetaria.
- Vedi qualcosa? - chiese Torrance.
- Ancora no, ora mi avvicino al po...
La comunicazione si interruppe all'improvviso.
- Arch, ci sei?Nessuna risposta.
- Arch, mi senti? Non ti ricevo. Che sta succedendo?
Ancora niente. Torrance andò avanti ancora un minuto con i suoi richiami finché non si rese conto che la barriera planetaria si era richiusa. Nessuna traccia visibile della scialuppa.
- Che diavolo...? - disse Torrance.Osservò turbato A2546-KUH. Come sempre, nessuna attività a livello visivo,radio, nucleare o di qualsiasi altro tipo di fenomeno fisico. Torrance si adagiò al sedile e sospirò. Fino a quel momento, era stata persa la scialuppa ed un membro dell'equipaggio, senza che il carico fosse stato consegnato. Davvero un bel bilancio, e senza alcun dubbio la situazione poteva ancora peggiorare. Sarebbe stato quantomeno seccante se Stanton non fosse tornato: non avrebbe potuto provare in maniera semplice che non era pazzo. Torrance imprecò contro la compagnia e tutta la serie di corsi di formazione che era stato costretto a seguire, e della cui totale inutilità ora si rendeva pienamente conto.
E ora dove diavolo era Arch?
(by MaxArt)

[Mini] Il razzo

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Avevano studiato anni per dargli la forma più adatta, l'avevano costruito di un materiale leggerissimo e indistruttibile, l'avevano dotato di un motore a fusione nucleare, potentissimo e infallibile. Avevano creato il razzo più veloce di ogni tempo, più veloce della luce.

"Passeremo alla storia", disse J.T.D. Foster dall'alto del suo casco giallo oro. I fotografi impazzivano, la gente attendeva ansiosa il lancio. Poi, finalmente, l'ora scoccò. Un posto solo c'era su quell'angusta scialuppa, un solo testimone ci sarebbe stato di quell'impresa memorabile. Vecchi e bambini si riunirono a salutarlo mentre partiva. Si levò al cielo con un rombo assordante, le scie bluastre sparirono con lui, lontano.

Non lo rividero mai più. Lo credettero perso nello spazio cosmico, morto, sfracellato contro un meteorite inaspettato o incapace di tornare a casa.

E invece J.T.D. Foster era tornato regolarmente, come previsto, un'ora dopo il lancio. Era la Terra, ad essere sparita. Scese dal razzo e capì. Di tutti i suoi affetti, gli rimaneva solo qualche sasso su cui piangere.

Fantascienza e dintorni

Seconda edizione del concorso Fantascienza e dintorni indetto da Claudio Zago. Si può partecipare con un massimo di due racconti per autore, e gli elaborati non devono superare le 10000 battute. L'iscrizione è totalmente gratuita. I premi sono delle semplici targhette ricordo, ma il pregio di questo concorso è il fatto che a ogni singolo partecipante viene fornita la classifica finale completa, ed è dunque questa una buona occasione per mettere alla prova le proprie abilità di scrittore - dato che la prima edizione ha visto la partecipazione di una cinquantina di autori e 70 racconti in tutto. Vi è poi una seconda sezione del concorso dedicata al disegno della copertina dell'antologia che andrà a raccogliere gli scritti vincitori, che riceveranno come premio una targhetta ricordo.

Clicca qui per il bando completo.

[Racconto] Bambole



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'Ti capisco quando dici che
rivorresti le tue bambole...'
(Negrita, 'Bambole')



Vennero una notte d'inverno. Non avevano orecchie a punta, nè una pelle verde e ripugnante. E poi si presentarono alle nostre porte tutti nella stessa notte, protetti da una corazza di metallo. Avevano preso la forma di cane robot, era stata quella la loro grande trovata; lì per lì ci cascai anch'io. Danny aveva sempre voluto un animale, non ci fu verso di convincerlo quando lo vide sulla porta, quel mattino. Volle perfino dargli un nome, a quella bestia: io per lui non ce l'avevo un nome, per lui io ero mamma, 'ma, 'm, ma quel cane bastardo era Bob, Roger, Fido! Aveva anche voluto l'enciclopedia, per cercargli un nome che suonasse bene, qualcosa di importante, e alla fine decise per Argo. Ogni due o tre giorni gli cambiava nome, comunque, tanto per fare.

Iniziai a insospettirmi quando notai quei suoi strani occhi. Prima non ci avevo fatto caso, voglio dire, gli occhi di un qualsiasi cane robot sono un cerchiolino luminoso rosso, che dietro devono nascondere dei meccanismi complicati, sensori visivi o che so io. Passavo dalla stanza di Danny per rigovernare, e notai che stavano giocando, sembravano divertirsi. C'era qualcosa di terribilmente strano, però. Si stavano fissando dritto negli occhi. Il robottino scodinzolava, sembrava felice, ed anche Danny lo sembrava. Anzi, Danny era felice. Ma quei due occhi elettronici..! Erano terribilmente grossi, ed erano anche molto luminosi. Avevo visto altri animaletti del genere, giù al mercato dell'usato: scimmiette, gattini, anche due o tre piccoli pappagalli; ma nessuno, nessuno!, dico, aveva degli occhi così. Erano quasi minacciosi.

Danny, ad ogni modo, non sembrava preoccuparsene più di tanto. Più che preoccupato, era preso dal suo nuovo 'regalo', come lo chiamava lui. E non sentiva più ragioni, tornato a casa da scuola salutava sempre prima lui, e poi me; faceva pranzo, saliva in camera; e quell'ammasso di ferraglia sembrava felice di seguirlo. Stava su delle ore, scendeva solo per cena, e sempre in compagnia del suo nuovo, inseparabile amichetto. E ritornava in camera a guardarlo, a guardare quegli occhi malefici. Ogni giorno.

Dan era in camera sua quel pomeriggio, come al solito, a farsi rubare l'anima un altro po'. Non sto esagerando. Quel cane gli rubava l'anima, davvero. Io non esistevo più per lui, ero diventata un fantasma, prima ancora degli amici e dei compagni di scuola. Il cane gli rubava l'anima, lo guardava negli occhi e gliela portava via, la immagazzinava nella sua piccola testolina, dietro agli occhi e ai sensori e a tutto il resto. In fondo l'avevo saputo fin da quando l'avevo visto per la prima volta, no?: quei robot piccoli e senza cuore li avevano inviati Loro. Chi altri? Chi poteva avere in mente un piano così subdolo, un colpo così basso? Entrare nelle case e rubare il cuore ai nostri bambini; ma non di nascosto, no! Farlo sotto gli occhi di tutti avrebbe destato meno sospetti. E un giorno o l'altro, quando l'opera sarebbe stata completata, allora sarebbero scappati via, tutti insieme nell'oscurità, sarebbero tornati di corsa alle loro basi, alle loro fottute astronavi, per vendere i nostri cuori su di un pianeta lontano. Mercanti di anime...non era già successo su Orione, su Andromeda? Ed io dovevo lasciare che ciò accadesse? Dovevo forse permettere che mi portassero via mio figlio?

Finalmente riuscii ad ottenere che il cane dormisse fuori. Fuori dalla stanza di Dan, voglio dire. Nessuna marchingegno di quel tipo avrebbe resistito ai meno sessanta notturni di queste parti, quando il nostro sole tramonta e spirano i venti più freddi, e questo Danny lo sapeva, purtroppo, perciò chiedergli di far dormire il cane fuori casa sarebbe stato come dirgli apertamente di uccidere il suo compagno di giochi. Invece inventai un pretesto per un castigo. Quella macchinetta infernale avrebbe dormito in salotto per le due settimane seguenti.

Quella notte non chiusi occhio, almeno fino a quando non mi decisi a scendere dal letto e controllare che fosse tutto a posto. Presi una torcia piccola e regolabile, forniva soltanto un filo di luce, che era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Con una lentezza indescrivibile mi avvicinai in silenzio alla porta che dava sul salotto. Accesi la torcia, attenta a non provocare il minimo rumore, e puntai il fascio luminoso su quegli occhi di fuoco. Erano chiusi. Tirai un sospiro, tornai nel letto e dormii tutta la notte.

Questa cosa si ripetè per tutta la settimana. Ogni notte aspettavo che Dan si addormentasse (lui non sospettava niente), poi mi alzavo nel silenzio più assoluto - davvero, non producevo il minimo rumore - e mi accostavo alla porta a guardare quell'essere maledetto. Anche lui dormiva, era immobile -- così ogni notte tornavo rassicurata a letto, e la mattina mi svegliavo di buonumore. Questo fino all'ottava notte...

Mi alzai, come ero solita, solo quando fui sicura che Dan fosse a dormire da un pezzo. Infilai le pantofole, presi la mia piccola torcia. Ed avanzai in direzione del salotto. Non stupitevi se vi dico che l'operazione poteva durare un'ora o anche più. Il silenzio richiede lentezza. E con una lentezza paranormale, tale che se mi aveste visto, se voi stessi mi aveste visto, avreste detto che ero immobile, che non mi stavo muovendo affatto, mi avvicinai finalmente alla porta del salotto. Avevo imparato ad essere silenziosa anche nell'operazione più rischiosa, l'accensione della torcia: premetti il polpastrello sul pulsante, per rilasciarlo dolcemente, molto lentamente, in un paio di minuti. Finita l'operazione, che per una strana scaramanzia effettuavo solo a due passi dalla porta, puntai finalmente il minuscolo fascio di luce sugli occhi di quella belva. Un fascio di luce spesso quanto un filo di ragnatela arrivò al cane e me ne restituì le forme. Gli occhi erano chiusi, come sempre. Il corpo giaceva immobile, rannicchiato in una postura che pareva dolce, e non meccanica. Era la prima volta che notavo quel particolare. Volli allargare il fascio di luce, per osservarlo meglio. Non l'avessi mai fatto! Nel farlo urtai accidentalmente la maniglia della porta. E quegli occhi, quei grandi occhi rossi, luminosi e maledetti, si aprirono e guardarono intorno. Rabbrividii. Maledissi mentalmente quella mia mano di cui avevo perso il controllo, ma era troppo tardi per i rimpianti. Quella bestiolina girò la testa e si alzò sulle zampe, con quei due punti luminosi, terribili e ipnotizzanti, ancora intenti a scrutare le forme nell'oscirità. Non saprei dire quanto rimasi sulla soglia, nell'immobilità più totale, aspettando che quel coso si riaddormentasse. Scelsi dapprima di spegnere la torcia, premendo ancora sull'interruttore, per favorirgli il sonno. E quando, dopo aver ripreso completamente il controllo del mio corpo, della respirazione, del battito del mio cuore, quando fu passato del tempo, almeno due o tre ore, decisi di aprire un minuscolo fascio di luce, un filo, un finissimo capello luminoso in direzione della bestia. Era ancora aperto. Questa volta guardava proprio me, dritto negli occhi. Andai su tutte le furie. Spalancai la porta, cieca di rabbia, presi un vaso di ceramica a pochi passi. E glielo sfracellai addosso. Il metallo di quella creatura era più fragile di quel che pensavo, oppure fu l'ira atroce da cui ero posseduta a deviare i miei sensi e rinvigorire le mie forze. Si spense con un gemito di paura, torcendosi dagli spasmi di dolore. Ricordo che risi, e che risi di cuore, quando vidi quei terribili occhi alieni spegnersi.

Il rumore dal salotto svegliò Dan. Corse in salotto in pigiama, e vide. Vide i bulloni rotolare via sul pavimento, vide il suo nuovo amico in pezzi. Prese a piangere. Mi insultava, singhiozzava qualcosa del suo regalo di Natale distrutto. Lui non sapeva, non sospettava. Ma io l'ho salvato, credetemi!

Una breve premessa

Nel post di presentazione ho detto di essere il promotore di un newsgroup che raccoglie racconti di fantascienza: voglio spiegarmi meglio.

Innanzitutto un newsgroup è grosso modo un forum, pur con delle sostanziali differenze: il topic (tema) è di solito più mirato, e inoltre i newsgroups sono decisamente più reperibili dei forum. Ad esempio, it-alt.arti.scrivere.fantascienza è raggiungibile, tra gli altri indirizzi, da mynewsgate, ma anche da programmi come outlook (o un qualsiasi altro newsreader) dopo una breve configurazione. Il vantaggio di questa grande 'visibilità' è una maggiore partecipazione: e infatti nei primi tempi il gruppo è stato letteralmente invaso di racconti. Ora il traffico sta diminuendo, come è naturale, dopo l'euforia iniziale, e in questo periodo mi occupo quindi prevalentemente di 'pubblicizzare' il newsgroup, lasciando per il momento da parte i racconti. Esiste già un sito ufficiale del gruppo, in cui tra le altre cose sono presenti le FAQ del gruppo, di cui la prima parte fornisce una buona introduzione al mondo dei gruppi di discussione (newsgroups).

Perché ho voluto creare il gruppo? Perché sapevo che ci sono tantissimi appassionati di fantascienza, tantissimi aspiranti scrittori in tutta Italia, in mezzo ai quali mi ci metto anch'io. Dicono che la fantascienza sia in crisi, che si faccia uno scrittore di fantascienza faccia una fatica pazzesca a farsi pubblicare... beh, voglio nel mio piccolo contribuire ad invertire questa tendenza. La fantascienza è un genere letterario che offre un numero di spunti pressoché infinito, non è certo per la mancanza di idee che in Italia sta collassando, quanto per la diffidenza da parte delle maggiori case editrici che spesso preferiscono un libro di narrativa di scarso livello ad un buon libro di fantascienza. Insomma, solo gli scrittori più bravi riescono a farsi pubblicare. E poiché, come ho già detto, solo con la pratica ci si può migliorare... ecco spiegata l'esistenza di questo vero e proprio laboratorio di scrittura :).

[Racconto] Kay

Il mio secondo racconto, quello a cui sono più affezionato. Lo trovate, come per tutti gli altri miei racconti, anche direttamente sul newsgroup, cliccando sul titolo.

[scarica il racconto in .pdf]
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Kay stava osservando incuriosita.

«Che stai facendo, nonno?»
«Oh…niente di che.»
«E dai…fammi vedere!»

Nella stanza si udì un fruscio di carte.

«Ecco qui, curiosona…una cartina, tutto qui…»
Ma Kay non vedeva nessuna cartina.

«Ma questa non è una cartina, nonno…»
E infatti non era una cartina. La bambina dimostrava molto più dei suoi cinque anni. In fondo sua figlia era una buona madre…Emise un lieve sospiro, leggero.

«Sì che lo è, curiosona…una cartina…del cosmo!»
Kay aggrottò le sopracciglia. Non capiva.

«Vuoi dire che…»
Il nonno sollevò la mappa dal tavolo, poi aprì la porta che dava sulla veranda, e invitò la nipotina a seguirlo.

«Su, dai, vieni qui Kay…»
«Fa freddo fuori, la mamma ci uccide se…» rivolse uno sguardo alla cucina, ma percepiva soltanto una luce accesa e rumore di pentole.
«Non preoccuparti della mamma, infilati una giaccavento e vieni qui…»
Kay fece come le diceva il nonno, anche se restava un po’ preoccupata che la mamma potesse vederli là fuori a prender freddo.

Ora il vecchio riaprì la mappa. La luce dal soggiorno era appena sufficiente ad esaminarla, ed il cielo stellato sovrastava le loro teste. Kay capì.
«Vuoi dire che ad ogni puntino…corrisponde una stella?»
«Proprio così, cara» Le accarezzò i capelli castani pettinati in una graziosa coda di cavallo.

«E noi dove siamo?»
«Noi non ci siamo, nella cartina…questo è il cielo come lo vediamo da dove siamo noi, con i nomi degli astri e tutto quanto…»
Il nonno piegò la mappa affinché la luce dall’interno restituisse agli occhi i puntini luminosi della carta.
«Questo è il nord, vedi, e queste stelle sono…»
«Quella costellazione là» Kay tese il suo piccolo braccio destro e indicò un punto nello spazio prima che il nonno potesse terminare la frase.

«Proprio quella, sì…» Quella bambina era molto sveglia. «Ed ora…pensa che intorno ad ogni singolo puntino che vedi nel cielo ruotano dei pianeti…non attorno a tutte quante le stelle, certo, c’è chi non ne ha e chi ne ha a decine, ma per la maggior parte ogni stella, capisci, per ognuna ci sono almeno due o tre pianetini disabitati attratti dalla forza di quei giganti…»

Dalla cucina si sentì una voce. Era la mamma che chiamava Kay.
«E’ meglio se rientriamo ora…»
«Sì, inizia a far freddo qui…»
Prese in braccio la nipotina e la portò nella sua stanza da letto. Intanto lei chiamò ancora il nonno tirandogli la manica della camicia, e gli rivolse un’altra domanda.
«Ma…tutti quei pianeti…sono tutti quanti abitati? C’è vita nell’universo?»
«Oh, beh…giusto un po’ il sabato sera!» La sua faccia aveva preso un’espressione divertita.
Kay gli mostrò la lingua rosea. Ora era seduta sul suo piccolo letto.


«E quante stelle ci sono?» Si era scoperta sempre più interessata alle parole del nonno.
«Miliardi e miliardi…quello di cui facciamo parte non è che un piccolo ammasso di stelle, sai…ma nello spazio ce ne sono altri, molti altri che da qui non possiamo vedere, troppo lontani per essere visti da qualsiasi strumento…»
Kay era assorta in un calcolo complicato.

«Ma tutti quei miliardi di pianeti…non saranno mica tutti quanti disabitati…vero, nonno? Ci sarà pure qualcuno da qualche parte…»

Ora era sul bordo del suo letto, seduta dove il nonno l’aveva lasciata, e scalciava impaziente in attesa di una risposta. Ma non ascoltava più il nonno. Stava fantasticando su quanta gente in quel momento stesse guardando il cielo, proprio come lei fino a poco prima, da un altro angolo dell’universo.

«Già, proprio così, da qualche parte nell’universo, ma chi può dire dove…Non io di certo!» ammiccò alla nipotina, e le diede una lieve gomitata come per giocare. Lei rispose con una risata divertita...ma anche un po’ delusa.
«Ma…e allora…» Mentre il nonno parlava, rimase in silenzio come a scegliere le parole, ma poi disse soltanto…

«…come sono fatti?!»
Voleva una risposta. Glielo si leggeva negli occhi.
Il nonno stette in silenzio per alcuni istanti. Poi, ancora agile nonostante l’età, si chinò fino all’orecchio della nipotina e le sussurrò qualcosa.

«Ooh…» fece lei.

Soddisfatto della reazione della nipotina, tornò in piedi e si diresse verso l’interruttore di corrente.
«Meglio se andiamo a nanna ora…buonanotte», disse il nonno.
«Buonanotte, nonno», rispose.
Il nonno spense la luce.

Due occhi…due soltanto. Non sapeva se stupirsi o decidere che era soltanto un altro scherzo del nonno. Due occhi…sì, ma dove?

Il nonno camminava nel corridoio. Sorrideva.
Quella notte Kay sognò di mondi lontani.

[Racconto] Il sogno

Questo è il mio primo racconto postato su it-alt.arti.scrivere.fantascienza, il newsgroup di cui sono il promotore. Non ho idea di quanti riusciranno a leggere il racconto da qui, ma in tal caso vi prego di commentarlo qui o direttamente sul newsgroup. Buona lettura :)


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Nel sogno era un uomo ricco e felice, con una moglie e due bambine splendide.
Vivevano in una lussuosa villa di campagna, una di quelle che aveva sempre desiderato; lussuosa, sì, ma non tanto da provocare l’invidia del vicinato: bella quanto bastava per essere la migliore ai suoi occhi, tutto qui, col suo bel praticello e il cortile coi conigli ed un cane a far la guardia se si decideva di passare un fine settimana fuori, ecco. Nel sogno era seduto in salotto accanto alla sua bella, si discuteva del più e del meno in allegria. Fuori nel cortile Anna, la più piccina, e Teresa, ormai quattordicenne, giocavano a pallone insieme, e le grida di divertimento giungevano al soggiorno e gli facevano pensare a quanto era stato fortunato nella vita, a come era riuscito a realizzare passo per passo tutti i suoi progetti, la famiglia, la casa, il lavoro, tutto. Sonia lo fissava ora in silenzio dai suoi occhi vispi di un colore indefinito tra il verde e il grigio che tanto avevano fatto sognare il marito, e sembrava poter scrutare nel suo animo e capire i suoi pensieri, rallegrandosi di quanto fosse stata fortunata essa stessa. Lui se ne capacitò a sua volta, e scostandosi dal suo posto le strinse la mano in un gesto d’affetto, accennando un sorriso che fu ricambiato.
Ma in quell’istante un grido, un urlo che non era certo un segno di divertimento, irruppe nella stanza. Ne fu quasi sconvolto, sapeva che qualcosa era andato storto. Incontrò ancora lo sguardo di Sonia, ma stavolta i suoi occhi sembravano spenti. Tutta la stanza era come avvolta dalla nebbia. Quando Anna entrò in salotto, aveva un ghigno stampato sul volto, e teneva un coniglio per le lunghe orecchie. Il suo sguardo si volse allora all’animale: grondava sangue sul pavimento da un vistoso squarcio sul petto.


Si svegliò terrorizzato.

Aperti gli occhi, si sentì paralizzato al ricordo della scena e il suo volto si contorse in una smorfia di disgusto. L’edificio dove si trovava era alto e grigio, grigio, di cemento armato forse. Poteva sentire grida tutt’intorno a lui, ma non ci pensò, semplicemente strisciò per mezzo metro sulle braccia (dopo il sogno aveva la schiena a pezzi) a raggiungere un barattolino di vetro alto e stretto. Ci ficcò la mano tremante ed ingollò le tre compresse che riuscì ad afferrare. L’effetto fu quasi immediato: pochi secondi più tardi, era già ricaduto in un sonno pesante e profondo.

Anna stava piangendo e Teresa, pochi metri dietro di lei, la osservava con uno sguardo triste e comprensivo. L’animaletto aveva una ferita che nessuno riusciva a spiegarsi: il cane, forse. Ma era stato sempre cosi docile..! La ferita non era grave ad ogni modo. Non che gliene fregasse un granché, ma se voleva mantenere la figura di padre affettuoso avrebbe dovuto medicare la ferita. Quella stupida bestia. Lei ed il cane. Prese l’animale e lo portò in bagno. Disinfettare un coniglio…ma chi cazzo glielo faceva fare! Anna osservò i gesti del padre e comprese il suo pensiero. Prese a piangere più forte…e Sonia ora lo fissava indispettita in uno sguardo di rimprovero. Il sogno divenne così strano…fino a pochi attimi prima gli era sembrato di vedere chiaramente. Ma ora la vista gli si stava lentamente offuscando, i contorni della figlia erano doppi e confusi, e la sua voce suonava diversa dal solito: più bassa e grave, come a giurare vendetta.


Arrancò nuovamente al risveglio. Si era allontanato ancora dal suo barattolo, chissà come nel sonno agitato, forse rotolando su un fianco. Questa volta però la distanza era maggiore: dovette pensare che sarebbe stato più facile arrivarci da in piedi, perché cercò a tastoni qualcosa a cui appoggiarsi. Riconobbe un corpo forse addormentato, steso al suolo come lui fino a pochi attimi prima, a pochi centimetri un piccolo contenitore in vetro. Il contenitore era vuoto.
Da dietro le sue spalle, un ronzio metallico. Riuscì a nascondersi per un pelo. Pochi attimi dopo un macchinario che si muoveva appeso alle rotaie sul soffitto analizzò, col suo braccio meccanico, l’iride del corpo a cui fino a pochi attimi prima aveva avuto intenzione di aggrapparsi. Riconobbe nel corpo una donna di mezza età, vestita in abiti trasandati. I capelli lunghi e ricci le cadevano disordinatamente sul volto, dandole un’aria ancora più trascurata. Mentre con una sorta di pinza il robot le teneva aperte le palpebre, una luce le scorreva freneticamente su e giù per l’occhio a scannerizzarle la pupilla. E’ morta, pensò dal suo nascondiglio provvisorio. Finita l’operazione, il robot emise una serie di segnali radio, attese una risposta dall’unità di eleborazione centrale, ed infine sollevò il corpo grazie al braccio meccanico. La donna venne trasportata in un’altra area che l’uomo non riuscì a scorgere nella penombra.
Si sentiva davvero spossato, ora. Capiva che prima o poi anche il suo piccolo contenitore si sarebbe svuotato, e realizzare quale sarebbe stata la sua fine allora non era certo un’operazione che richiedesse un grande sforzo di immaginazione.
Ma i sintomi della dipendenza erano troppo forti. Riuscì a fatica a rialzarsi e a raggiungere il barattolo, anche se le gambe gli facevano un male cane e le braccia continuavano a tremargli freneticamente, quasi ripudiassero il suo corpo. Arpionò il recipiente con entrambe le mani e rovesciandolo se lo portò sopra la testa. La maggior parte del contenuto cadde a terra, ma le cinque pillole che centrarono il bersaglio bastarono a ricalarlo nel buio più nero.


Sonia e Teresa erano infuriate con lui, ma Anna lo era ancora di più. Strillava e piangeva imprecandogli contro, e dovette rifugiarsi dalla mamma per trovare un po’ di conforto. Il cane ora latrava autoritario nel cortile, come presagendo una lite furiosa. Spezzò con la sua mole la sottile corda che lo teneva legato al cancello, e si introdusse in casa insistendo ad abbaiare. Ora perfino il cane era contro di lui. Vedeva il coniglio sanguinare nelle sue mani, e per tutta risposta si mise ad abbaiare ancora più forte.
Stizzito, sbraitò al cane. «Brutto bastardo, guarda che hai fatto! questa soltanto è opera tua..» Lanciò con tutte le sue forze il corpicino della bestiola sul muso del cane da guardia, che ormai era a pochi passi. Il cane riuscì a scansarlo, ma il gesto liberò la furia di Sonia. Gli saltò addosso furiosa urlandogli in faccia, e di lì a poco la lite sarebbe sfociata nella violenza, se…


Si alzò boccheggiando. Non poteva continuare. Assolutamente, non poteva continuare. Raccolse le forze e decise che doveva uscire da quell’inferno. Il contenitore giaceva per terra rovesciato e c’erano ancora diverse pastiglie al suolo accanto ad esso. Ma lui aveva preso una decisione: doveva uscire da quell’inferno. E se voleva uscire da quell’inferno, per prima cosa doveva smetterla anche solo di pensare a impasticcarsi di nuovo. Sentiva che poteva farcela, se agiva in fretta. Contro ogni aspettativa si sentiva ora più rinfrancato, e decise di tentare il tutto per tutto. Un passo alla volta dapprima, e poi correndo, arrivò al luogo in cui gli era sembrato di aver visto sparire il braccio meccanico. Cominciava a sentire delle fitte allo stomaco e un tremolio alle braccia, ma le gambe reggevano ancora, e le braccia non gli servivano. Non ora. La corsa gli sembrava interminabile, ma già intravedeva…sì, sì, una luce!
Corse con quanto fiato aveva in gola. Ma le gambe incominciavano a indolenzirsi seriamente. Dovette rallentare e riprendere un po’ di fiato. Ma c’era una porta, ed era aperta, a poche decine di metri dal suo naso. Poteva avanzare solo zoppicando ora, ma l’importante era avanzare. Piuttosto, doveva guardarsi dal farlo ben in silenzio…era spaventato a morte dall’idea di fare la fine della ragazza trasandata di poco prima.
Di nuovo, un ronzio metallico…
Si buttò a terra, ed era l’unica cosa che poteva fare nelle sue condizioni. Immaginò che si trattasse di un altro corpo deceduto, ma non lo seppe mai.
Il braccio meccanico non si curò (o sembrò non farlo) di lui, e proseguì per la sua strada verso l’esterno. Bene.
Se l’istinto di buttarsi a terra gli aveva forse salvato la vita, aveva però sicuramente peggiorato le sue condizioni fisiche. Aveva battuto le ginocchia con un colpo secco, e poiché stavolta non riusciva a rialzarsi completamente, ora procedeva gattoni.
La luce…era fuori.
Se avesse aperto gli occhi, se avesse resistito ancora un attimo, avrebbe visto il mondo come gli si presentava fino a poche settimane prima. Un mondo frenetico, meccanizzato, ottimizzato per ottenere il meglio nel minor tempo possibile, un mondo dove pochi uomini trovavano spazio, e gli altri si dovevano rassegnare. Gli altri, come lui e la donna coi capelli ricci.
Ma non riuscì ad aprire gli occhi. Il dolore era troppo forte, e non era soltanto dolore fisico. Appena uscito, si era ricordato come per incanto di come la sua vita ed il suo mondo erano crudeli con lui. Si accasciò al suolo.
Cinque minuti più tardi, di fronte alla porta dell’Ospedale Psichiatrico Nazionale, ala 51b, ci fu un lieve ronzio metallico. Pochi attimi dopo un braccio meccanico, proveniente da fuori, aprì con una sorta di pinza le palpebre di un uomo dall’aria smunta, il corpo flaccido, il viso contorto in un’espressione di indicibile sofferenza. Ma il braccio meccanico non si accorse nulla di tutto ciò. Semplicemente, azionò lo scanner della pupilla, inviò dei segnali radio all’unità di elaborazione centrale, attese la risposta e infine si caricò addosso il peso del corpo esanime, portandoselo via per sempre.

Perché scrivo racconti?

Anche se lo faccio da poco, mi è capitato più di una volta di chiedermi perché scrivo racconti, e perché proprio di fantascienza. Rispondere alla prima domanda per me è piuttosto facile: leggo e scrivo dall'età di cinque anni, adoro leggere ma ancor di più adoro scrivere. Certo non scrivere recensioni o temi in classe, ho sempre odiato farlo e non ho mai ottenuto dei risultati soddisfacenti: mi piace scrivere, ma solo a patto che sia io a decidere cosa. E leggendo i miei primi libri di fantascienza mi sono trovato a riflettere, a immaginare nuove storie che sapevo sarebbero state bellissime se solo avessi avuto le capacità per raccontarle... e così eccomi qua, non sono certo un grande scrittore ma voglio continuare a esercitarmi a scrivere, perché per migliorarsi non c'è modo migliore. Insomma, voglio vedere dove posso arrivare :). D'altra parte quello che scrivo mi piace (oddio, *quasi* tutto!), e questo in un certo senso è già un risultato che ti spinge a continuare... che è esattamente ciò che voglio fare! Difficile che cambi idea in proposito, anzi direi impossibile: ho molti hobbies ma scrivere è davvero diverso, non ci sono limiti o regole da tenere, ci puoi mettere dentro quello che vuoi, la tua vita o quella degli altri, o niente di tutto questo. Perché la fantascienza? Beh, perché mi piace! :)

Presentazione

Scrivo su questo blog per parlare delle mie passioni più che di me stesso, e tra tutte le mie passioni al primo posto metto senza dubbio la fantascienza.
Credo sia stata la mia professoressa di italiano. Un giorno ci diede da leggere e recensire un libro a scelta tra Io, Robot di Isaac Asimov e Cronache marziane di Ray Bradbury. Nomi che non avevo quasi mai sentito nominare prima, e che non mi facevano né caldo né freddo - anzi, ricordo di essermi sentito afflitto pensando che avrei dovuto scriverne la recensione. Scelsi Io, Robot, perché il titolo mi attirava, e una volta iniziato lo divorai letteralmente... e allo stesso modo divorai anche Cronache marziane. Mi sentivo completamente trasportato da una fantasia che non aveva alcun limite: il fascino del rapporto uomo-macchina di Asimov da una parte, la poesia e l'umorismo di Bradbury dall'altra... comprai una decina di altri libri, e mentre leggevo immaginavo mondi lontani, e me ne inventavo altri...
Ecco, la mia è una storia come tante, ma per me è tutta speciale perché... beh, perché è la mia! :) Non è passato troppo tempo da quando ho letto il mio primo libro di sci-fi, ed ora sono il promotore di un newsgroup che raccoglie racconti di fantascienza scritti dagli utenti di tutta Italia. Devo dire che mi ha stupito moltissimo l'entusiasmo con cui il newsgroup è stato accolto: dopo tre mesi di vita, compaiono già un'ottantina o più di racconti, tra cui quattro o cinque scritti da me. L'ambiente è molto amichevole ed è facile scambiarsi opinioni, critiche e suggerimenti sui racconti. Ora continuo, nel tempo libero, a scrivere racconti (le idee non mancano, per fortuna) e coltivo il sogno di diventare un giorno uno scrittore, chissà... potete leggere i miei racconti e commentarli sul newsgroup all'indirizzo del titolo - scorrete le pagine e cercate i racconti: il mio nick è Outspan.

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